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giovedì 22 febbraio 2024

RICONOSCERE LA VIA APPIA ANTICA A FORMIA - di Salvatore Ciccone
La via Appia antica a Formia è argomento divenuto ricorrente a causa della richiesta all’UNESCO di promuovere l’intero percorso da Roma a Brindisi come “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”. In verità la questione sembrerebbe indiscutibile, per la notorietà di questa strada connaturata alla stessa espansione di Roma e “regina” della estesa rete viaria dell’Impero. Così dovrebbe essere, se il suo tragitto contrassegnato ora dall’antico lastricato ed altre eccelse opere viarie, ora da monumenti sepolcrali riferiti alle antiche città da essa attraversate, fossero testimonianze sistematicamente preservate e visitabili, ma soprattutto se questo “bene” fosse realmente conosciuto e assunto come parte integrante dei “paesaggi” delle singole comunità; questo fatto è invece sporadico e rende una visione frammentaria cosicché si deve perorare la richiesta. Ora tornando Formia, in questa aspirazione di rilievo internazionale, la cittadinanza cosa conosce e di più quale valore assegna a questa strada di oltre 2300 anni e ancora indispensabile? Basti pensare che dal recupero della Tomba di Cicerone nel 1957, in occasione del bimillenario della morte a Formia del celebre oratore (7 dicembre 43 a. C.), nulla più si è fatto e il monumento tra i più caratteristici dell’intero tragitto è rimasto fino di recente incognito. Attualmente una tabellazione indica l’antico percorso in ambito urbano, ma nel tratto orientale erroneamente identificato nella sua variante medievale; invece prevale il riferimento alla “Via Francigena”, quel percorso che dalla Francia giungeva a Roma e che dopo il Mille ha anche riguardato il tragitto verso le sponde pugliesi di imbarco verso la Terra Santa; il progetto intendeva favorire attività turistiche minori e ci può stare, però dovendo segnalare la più antica e concreta strada, invece surclassata. Nella stessa città la via Appia è inconsapevolmente ripercorsa da quella “interna” lastricata con blocchi di basalto dai Borbone e che prima tutta si intitolava via Tullia, da Rialto a Mola, perciò riferita al nome di famiglia di Cicerone, ma che le amministrazioni comunali hanno poi dedicato ad Angelo Rubino, Ferdinando Lavanga, nonché all’Abate Tosti nel tratto di variante medievale: in ogni caso è stata soppressa l’identità dell’ Appia e in particolare nel rettilineo urbano che strutturava la città antica come “decumano massimo”. Dal punto di vista storico-topografico poi, la via che si considera nell’ambito comunale, in realtà attraversava il ben più esteso territorio antico di Formia, dal confine con “Fundi”, Fondi, all’imbocco inferiore della gola di Sant’Andrea, ora nel comune di Itri, per concludersi al territorio di “Minturnae”, Minturno in vicinanza di Scauri, circa al confine attuale. Così l’intero tratto formiano correva per 15 miglia (1 miglio romano = 1478,5 metri), dal miliare 79° al miliare 94° (attuali km. 127,00-149,00), tra i quali l’88° da Roma cadeva sul guado del torrente Rialto, ingresso occidentale della città: qui era il termine di 21 miglia ripavimentate da Caracalla nel 216 dopo Cristo, sovrapponendo al lastricato calcareo quello più duraturo di basalto, come attesta l’iscrizione miliaria riutilizzata nel campanile di S. Giovanni a Monte S. Biagio. Si deve infatti ricordare che la via iniziata nel 312 avanti Cristo dal censore Appio Claudio Centemmano detto Cieco poté raggiungere in soli due anni Capua contro i Sanniti perché semplicemente inghiaiata, seppure su strati di pietrame per assicurarne durevolezza; solo qualche anno dopo venne rivestita con pietra dei luoghi attraversati e dopo oltre un secolo raggiunse Taranto e Brindisi. Ora è opportuno focalizzare le testimonianze di competenza dell’attuale territorio di Formia. Venendo da Itri la Statale devia dall’antico rettilineo per sottopassare la ferrovia Roma-Napoli, accanto la quale (km. 136,500) affiora un tratto basolato con “in situ” il miliario LXXXV di Nerva, imperatore dal 96 al 98 dopo Cristo, elevato su piedistallo risalente ai lavori viari degli anni 1930. Tale presenza è per lo più sconosciuta e del tutto ignorata, resa dal traffico di insicuro accesso, nonché in deplorevole abbandono e degrado. Giungendo sulla pianura in vista del mare, dove incrocia la via Canzatora, antica diramazione verso il “Portus Caietae”, domina la visuale il rudere turriforme della Tomba di Cicerone (km. 139,200). Il sepolcro è compreso in un’area funeraria recintata rettangolare di oltre 5.000 metri quadrati e presenta una struttura a pianta quadrata in blocchi calcarei con lato di circa 17 metri che comprende una cella circolare e a cui si sovrappone un fusto cementizio con altezza totale di circa 19 metri. Recenti studi restituiscono al monumento di prima età augustea un rivestimento di marmo, superiormente in forma di tempio circolare con semicolonne sormontato da statua equestre di bronzo dorato, alto in tutto 100 piedi romani, metri 29,50. Inoltre si è evidenziato che il recinto sulla strada lungo oltre 85 metri ha implicato la modifica in piano di un più lungo tratto della via Appia, ciò ammissibile solo per determinazione pubblica e che avvalora la tradizione risalente almeno al X secolo che attribuisce il monumento e la zona a Cicerone. Inoltre nel recinto venne sepolta parte di una via lastricata che giungeva al litorale di Vindicio separando due ville, delle quali i resti in proprietà Lamberti sono nella stessa striscia di terreno con il sepolcro, interrotta dalla via litoranea. Ciò confronta le fonti antiche sul “Formianum” di Cicerone che lo dicono esteso per un miglio dal mare in altura, dove in effetti sono i resti di una villa rustica e dall’Appia si scorge il rudere indicato dalla tradizione Tomba di Tulliola, la figlia di Cicerone, dalla quale proviene una statua funeraria femminile ora presso il Museo Archeologico di Formia. In prossimità dell’ingresso di Formia (km. 140,500), la via Appia si allargava con tratto basolato in curva a comprendere una fontana, composta di una lunga parete in opera quadrata modanata con aderente al centro l’abbeveratoio alimentato da due maschere forse di Acheloo, divinità fluviale: la fontana risale al rifacimento viario di Caracalla, poiché sorta sul nuovo livello della strada, mentre il più antico lastricato calcareo è stato rinvenuto negli anni 1930 a circa metri 1,20 di profondità. Molti basoli accantonati sono stati illecitamente asportati dal lastricato sotto l’attuale carreggiata durante la posa di un impianto, mostrando tutta la fragilità di questa nobile strada nelle dinamiche attuali. La fontana è preceduta sul lato monte dai resti di sepolcri, dei quali evidente è quello a forma di torretta ottagonale a fasce sovrapposte di laterizi e blocchetti di calcare, “opus vittatum” di epoca imperiale. Poco prima, meno visibile, è di recente scavo il nucleo cementizio di un sepolcro, nel luogo di provenienza di iscrizioni di liberti della “gens Vitruvia” e di quella di età augustea di un Marco Vitruvio, dagli umanisti riferita all’autore del celebre trattato di architettura e riutilizzata nel Cinquecentesco Ponte di Rialto, 500 metri oltre la fontana. Da questo contesto sono venuti in luce sepolture con corredi funerari, mentre lo studio della struttura ha ipotizzato un sepolcro in forma di altare con fregio dorico: per paradosso i due ruderi vengono fatti ricoprire da rampicanti. In ambito urbano la via Appia ripercorre le vie Rubino e Lavanga per circa un chilometro e costituiva il decumano massimo della città. In corrispondenza del Foro (piazze Buonomo e Mattej), incrociava l’ortogonale cardine massimo (vie Castello e Gradoni del Duomo del medievale Castellone,) tangente ad occidente i resti del teatro (vico Teatro) e connesso all’arce cinta da mura poligonali (VI-IV sec. a. C.), in piazza S. Erasmo con porta sulla via originaria. Il tratto terminale del decumano (via Lavanga, trav. via XX Settembre) era interessato all’anfiteatro, risalente alla prima età augustea, opportunamente situato in vicinanza della insenatura portuale oggi colmata (largo D. Paone), aggirata a monte dalla via dove appunto resta il nome Caposelice cioè il capo del rettilineo selciato, aspetto che rappresenta il fatto più notevole della topografia della via Appia nell’antica Formia. Infatti fino di recente si è ritenuto che la strada ripercorresse quella del borgo di Mola, cosa inammissibile per il percorso contorto e promiscuo agli approdi. Essa invece svoltava e percorreva l’attuale via della Conca, interrotta in via Maiorino, ma che proseguiva passando vicino l’acquedotto su arcate del II-I secolo avanti Cristo il cui serbatoio terminale presenta un lato sghembo in quanto allineato alla carreggiata certamente come prospetto di una fontana pubblica. Recentemente in uno scavo condotto nei suoi pressi è affiorata la massicciata viaria disfatta, in questa zona acquitrinosa contenuta da muro poligonale; nello stesso luogo è inoltre documentato il sepolcro della gente Cesia (iscrizione presso il Museo) e affioramenti di basoli del selciato. È probabile che a fine Duecento la costruzione nel borgo del castello angioino o Torre di Mola per motivi strategici determinò la cancellazione del tratto che lo aggirava e allagato il suolo. Oltre la piazza Risorgimento, La via Appia prosegue con tipici rettilinei ad oriente ricalcata da quella moderna. In località S. Pietro (km. 144,600) è fiancheggiata a monte dall’imponente nucleo cementizio parallelepipedo di un sepolcro detto Torricella, identificabile nel tipo ad edicola e alla prima età augustea, ma di titolare incognito, probabilmente pertinente ad una villa; è comunque l’elemento distintivo del tratto orientale fino all’antica “Minturnae” sul fiume Garigliano. Oltre il sepolcro (km. 145,350), nel 1998 venne in luce parte del lastricato, mentre nel lapidario di Villa Caposele (Rubino), una colonna miliare reca il 92° miglio ricadente presso l’incrocio di via Gianola (km. 146,900) e attesta un rifacimento della strada nell’impero di Massenzio tra il 307 e il 312. Queste le principali evidenze del tragitto formiano della via Appia antica e le minime conoscenze per considerarne il valore, le problematiche conservative e una valorizzazione della via, intrecciate all’attuale uso che ora ne rende difficile una adeguata fruizione. Si deve quindi auspicare una maggiore consapevolezza insieme alle specifiche competenze, poiché altrimenti l’assegnazione della via Appia a Patrimonio Mondiale dell’Umanità non recherà che vani benefici alla cittadinanza.
Bibliografia essenziale S. Ciccone, Origine e sviluppo della viabilità nel territorio antico di Formia, in “Storia Illustrata di Formia”, Sellino Editore – Comune di Formia, vol. I, p 83 segg., Pratola Serra 2000. Idem, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, in “Formianum” VII-1999, p. 45 segg. Idem, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, in “Formianum” IX-2001, p. 11 segg. L. Quilici, Santuari, ville e mausolei sul percorso della via Appia al valico degli Aurunci, in “Atlante tematico di topografia antica, Acta 13 – 2004, p. 441 segg.
Didascalie delle immagini 1 - Miliare di Nerva sulla via Appia presso il confine con Itri. 2 – Ricostruzione della Tomba di Cicerone (Ciccone 2001). 3 – Resti del sepolcro di Marco Vitruvio con corrispondente ricostruzione (Ciccone 1997). 4 - La Fontana Romana e i pozzi sul precedente lastricato negli anni 1930 (da Quilici). 5 – Il sepolcro detto Torricella in contrada S. Pietro. 6 – Affioramento del lastricato della Via Appia sul tratto orientale.

giovedì 25 gennaio 2024

VITRUVIO IN DUE NINFEI A FORMIA - di Salvatore Ciccone
Nello scorso articolo ho trattato del sepolcro recentemente scoperto a Formia sulla via Appia, dal quale si è dimostrata provenire l’iscrizione di età augustea del titolare, un Marco Vitruvio, riutilizzata nel vicino ponte di Rialto risalente al 1568 e che ha indotto i classicisti a ritenerla riferita all’architetto di Cesare e che ad Augusto dedicò il suo celebre trattato sull’Architettura, pertanto facendo ritenere questa città la sua più probabile patria. Per la restituzione grafica del sepolcro ho fatto riferimento al criterio proporzionale analogo a quello impiegato in uno dei due cosiddetti ninfei di tarda età Repubblicana nella prossima zona costiera, architetture che presentano riscontri con l’opera di Vitruvio. Si tratta di due originali sale voltate articolate da colonne in una vasta residenza romana compresa nella Villa del principe di Caposele, divenuta nel 1852 luogo di vacanza di re Ferdinando II di Borbone, oggi proprietà Rubino; entrambe hanno sul fondo un vano a nicchia con fonte sorgiva e per questo ricondotte al tipo dei ninfei. Nella pianta le due sale si distinguono dai prevalenti ambienti uniformi di sostegno di un originario piano residenziale, elevato dall’attuale giardino di circa metri 7,50 e già ridotto in orto pensile, che ricalcano l’andamento di una rupe ai cui piedi scaturisce la sorgente; la fronte rettilinea degli ambienti si elevava di circa 2 metri da una vasta peschiera antistante, i cui resti furono interrati dai Borbone nell’ampliamento del giardino. Il “ninfeo minore” ha una pianta su matrice quadrata che forma un ambiente principale scandito da quattro colonne doriche, approfondito in una nicchia con fontana. La parte principale è ricostruzione dei Borbone da un’unica colonna e volte perimetrali superstiti, riproponendo un soffitto centrale a padiglione sospeso su lunghe piattebande. La decorazione generale a pietre spugnose richiama una grotta cui si aggiungono effetti pittorici e illusori: nella volta a botte della nicchia con scomparti a sassolini, conchiglie e paste vitree; nelle pareti a stucco con porte inquadrate da motivo architettonico; sulla colonna in un residuo di mosaico a riquadri. Il “ninfeo maggiore” ha pianta sviluppata su matrice rettangolare, con al centro un’ampia volta a botte scandita da lacunari o cassettoni, sostenuta su ambo i lati da quattro colonne doriche di pietra a stucco che spaziano su navate laterali; il fondo ha un vano occupato da fonte in vasca e decorato con pitture ‘egittizzanti’; all’opposto verso l’esterno si allunga una “fauce” di accesso. Nel pavimento di mosaico bianco punteggiato di marmi policromi, si trova al centro una vasca rettangolare o “impluvium” corrispondente all’apertura che esisteva al centro della volta o “compluvium”, di questa la ricostruzione borbonica annullò il risalto delle membrature nei giochi di luci ed ombre, nonché la ventilazione ascensionale. Tra le due sale, la volta di un ambiente reca i resti di intonaco a scanalature per convogliare l’acqua di condensa di un ambito termale del quale è tramandata la presenza di dispositivi di riscaldamento delle pareti. Ciò richiama l’abbinamento usuale di “balneum” con “triclinium” o sala da pranzo, della quale nello sviluppo a colonne, Vitruvio (“De Architectura”, VI, 3, 9) la nomina “oecus” e ne classifica tre tipi tra i quali il tetrastilo e il corinzio e che, dal greco “oikos”, casa, si deduce assimilati al nucleo della casa romana e di quella greca corinzia. Pertanto si devono propriamente riferire al “ninfeo minore” un oece tetrastilo e al “ninfeo maggiore” un oece corinzio, qui complementari così come nella trattazione vitruviana, seppure aggiunti adeguatamente di una fontana. Questa coincidenza risalta più specificatamente nel “ninfeo maggiore” che si riconosce nella descrizione dell’oece corinzio data da Vitruvio (VI, 3, 9): “I corinzi hanno le colonne che posano su di un podio o a terra, e sopra hanno epistili e cornici o in opera nella muratura o di stucco, di poi sopra le cornici, dei lacunari curvi che girano interrotti alle reni”; quest’ultima espressione allude ad volta di muratura a pieno centro, dove le reni sono le porzioni poco superiori ai piani d’imposta che non generano spinte laterali, per il resto ridotte dall’alleggerimento dei lacunari. Maggiori evidenze sul genere delle due sale si acquisiscono nello studio delle proporzioni. L’oece tetrastilo ha la pianta inscritta in un quadrato che comprende lo spessore del muro frontale, come pura quadrata è la nicchia, rivelando il criterio proporzionale dal teorema di Platone a quadrati concentrici tramandato da Vitruvio (IX, pref., 4-5): il quadrato principale della sala è di lato 25 piedi che nella serie concentrica trova nella sua metà di 12,5 piedi il lato della nicchia, traducibile in 25 palmi (1 palmo = m 0,074), cioè corrispondente al numero di piedi del quadrato maggiore. Anche l’alzato riscontra le regole stabilite da Vitruvio: la colonna di ordine dorico di altezza 14 volte il raggio di base (IV, 3, 4), qui di metri 4,14 su raggio di 1 piede; l’altezza della sala quadrata pari alla somma della larghezza con la sua metà (VI, 3, 8), qui presa tra i limiti interni delle colonne dà metri 5,85 in difetto di 15 centimetri, ma rispetto alla volta ricostruita. Nell’oece corinzio, la pianta risulta composta di tre rettangoli di diversa dimensione ma di medesima proporzione regolata da un segmento comune di 7,5 piedi ossia 30 palmi, che è il numero in piedi della lunghezza della sala colonnata: in questo segmento si deve perciò individuare il modulo che nel rettangolo maggiore scandisce la lunghezza in cinque parti e la larghezza in quattro, stabilendo una comune proporzione di 5:4. Il modulo poi decuplicato collima la lunghezza totale della sala con 75 piedi o 300 palmi, mentre la larghezza massima tra le pareti delle navate è di 37,5 piedi o 150 palmi, quindi rispettivamente di moduli 10 e 5 ribadendo il rapporto 1:2 prescritto per i triclini. Da ciò risalta pure come lunghezza totale dell’oece tetrastilo, di 37,5 piedi o 150 palmi, è la metà di quello corinzio dimostrando l’unità progettuale delle due sale. Anche nell’oece corinzio l’altezza confronta la proporzione prescritta da Vitruvio per i triclini, media della somma tra lunghezza e larghezza, qui in presenza delle colonne nel rapporto 1:2 della pianta la lunghezza effettiva di piedi 30 e larghezza la sua metà dà 3 moduli pari a 22,5 piedi (metri 6,65), in altezza coincidente al fondo dei lacunari di effettivo soffitto. La ragione del modulo di 7,5 piedi nel rapporto 5:4 dei rettangoli della pianta, si ha quando la misura viene convertita nel diretto multiplo del piede che è il cubito equivalente a 1,5 piedi (metri 0,445) e che ne assomma appunto 5; al contrario il numero 4 del rapporto dato in cubiti equivale a 6 piedi. A ciò Vitruvio (III, 1, 1-9), riguardo alle proporzioni degli edifici assimilate al corpo umano, fa corrispondere l’altezza e la larghezza con le braccia distese ad un quadrato proprio di 6 piedi di lato; inoltre inscrive il corpo in un cerchio con centro nell’ombelico a toccare le estremità degli arti divaricati. Al cerchio non dà una dimensione, ma dandogli il diametro di 7,5 piedi e cioè 5 cubiti, esso è tangente la base del quadrato e tocca i due angoli opposti, nel quale si verifica la collimazione con le membra. È quindi configurato uno schema di “symmetria” dimensionato dal cubito in cui si individua il modulo della sala, verificato dal fatto che in quella combinazione geometrica si inscrive perfettamente la pianta collimandone i punti principali. Dunque l’individuazione del criterio proporzionale dell’oece corinzio di Formia ricondurrebbe all’autentico schema geometrico dell’uomo vitruviano, che sicuramente non può corrispondere a quello celebre di Leonardo basato su numeri irrazionali, a decimali infiniti, non modulabili nell’Antichità e non confrontabili all’allora sistema di misura. La decifrazione architettonica dei due oeci trova così con opera di Vitruvio una stringente serie di correlazioni fino a risalire allo schema basato sul corpo umano. Ciò mi ha inoltre consentito una innovativa interpretazione della perduta basilica a Fano, da egli concepita e descritta, secondo la stessa somiglianza con gli oeci corinzi. Queste circostanze si possono ricondurre ad un medesimo autore, rafforzando di Vitruvio la presenza a Formia e che in aggiunta alle altre consistenti testimonianze ne rendono più probabile l’origine. Pertanto questi oeci, architettonicamente già riconosciuti basilari ed ora di tangibile correlazione alla sua opera, si presentano eccezionali come documenti di riferimento e risorsa culturale, ad identità ed onore della cittadinanza. ****** Per un’ampia bibliografia sull’argomento: S. CICCONE, Sale con volte su colonne al tempo di Vitruvio: gli esempi originali di Formia, “Formianum” VI-1998, Marina di Minturno 2002, pp. 11-29; AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, Marina di Minturno 2009. Una sintesi più recente dello stesso autore è nella rivista “Lazio ieri e oggi”, anno LV, n. 7-9, 2019, pp. 250-56.
Nelle immagini: Veduta verso settentrione della Villa Caposele dal porto omonimo e planimetria dell’area archeologica: nella linea rossa la sostruzione voltata; A – “ninfeo maggiore”; B – “ninfeo minore”; il “ninfeo minore”, propriamente oece tetrastilo, nella parziale ricostruzione borbonica e nella antecedente illustrazione di Pasquale Mattej (“Poliorama pittoresco”, IX -1845); pianta dell’oece tetrastilo basata sullo schema di simmetria dal teorema di Platone, a destra (CICCONE 1998); il “ninfeo maggiore”, propriamente oece corinzio, con la volta ricostruita dai Borbone e con gli effetti di luce dall’originario compluvium, nell’incisione di LUIGI ROSSINI (Viaggio pittoresco da Roma a Napoli, Roma 1839); pianta dell’oece corinzio con a destra il diagramma dei rettangoli costituenti in cui si individua il modulo (CICCONE 1998); schema di “symmetria” vitruviano del corpo umano commisurato al piede (B) e al cubito (A), nel quale si inscrive e coincide la pianta dell’oece corinzio (CICCONE 1998-2000).

martedì 23 gennaio 2024

I VENTICINQUE PONTI
La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo.. I VENTICINQUE PONTI La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo..
Nelle immagini il viadotto del Pontone nei primi anni del Novecento, mentre salta sotto le mine tedesche nel 1943, la consegna del cantiere all'impresa Bajetti - Rocchi nel 1948, lo stato dei lavori nel dicembre 1948 e maggio 1949, infine il viadotto a ricostruzione ultimata nel 1950 e la littorina ferma nella stazione di Formia alla fine degli anni '50

mercoledì 17 gennaio 2024

VITRUVIO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Vitruvio fu l’autore del “De Architettura libri decem” (I dieci libri dell’architettura) dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto e redatto tra il 27 e il 23 prima di Cristo. Come egli scrive in prefazione al primo libro, era stato nell’esercito di Giulio Cesare come sovraintendente alle macchine belliche e, ormai anziano, ottenne un vitalizio da Augusto tramite la sorella di questi Ottavia; in riconoscenza all’imperatore, raccoglie le sue cognizioni di architetto nel trattato, quale sussidio ai programmi di rinnovamento edilizio da quello intrapresi. Egli dimostra le conoscenze della disciplina e gli espedienti di mestiere, concretizzati nel quinto libro nella basilica da lui progettata e diretta nei lavori a Fano, evidentemente l’apice professionale convenientemente di ambito pubblico. Della diffusione del trattato si ha riscontro nell’opera di Frontino e nel compendio di Faventino, mentre Sidonio Apollinare nel V secolo indica Vitruvio come esponente dell’architettura. Il testo serbato nelle biblioteche monastiche ricomincerà a circolare nel Trecento; ritornerà alla ribalta con Leon Battista Alberti, affermandosi come uno dei cardini del Rinascimento, basilare nell’interpretazione dell’architettura classica, dell’arte del costruire e dello stesso mestiere dell’architetto, fino all’Ottocento. Eppure di Vitruvio è ignota la terra natale, nonché la veridicità dell’intero nominativo, Marco Vitruvio Pollione. Varie le identificazioni delle origini: Fano per via della Basilica, Fondi per quel Marco Vitruvio Vacco a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C.; quindi per le iscrizioni a Roma, Verona e in Numidia su un edificio pubblico finanziato da un Marco Vitruvio Mamurra, per il quale l’architetto creduto lo stesso ricchissimo formiano Mamurra, capo del genio militare e amico di Cesare, ipotesi destituita di ogni fondamento. Tuttavia la patria più accreditata è Formia, per il numero di iscrizioni seconda solo a Roma e perché in esse sono menzionati sia personaggi gentilizi, sia i liberti e in un arco di tempo che va almeno dal I secolo avanti Cristo al terzo dopo Cristo. Di recente lo studio di alcuni monumenti formiani rivela interessanti legami con il trattato. Nei cosiddetti Ninfei tra i resti di una residenza in Villa Caposele (oggi Rubino), si è risaliti al criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria”, identificati nel famoso schema proporzionale dell’uomo nel cerchio e nel quadrato ripreso da Leonardo: le stringenti corrispondenze nella datazione dei “Ninfei” possono ricondurre allo stesso Vitruvio e ad avvalorare la sua origine formiana. Tra le numerose epigrafi, particolare è quella funeraria di un Marco Vitruvio, più volte menzionata dagli studiosi del passato, il cui blocco si trova riutilizzato nelle spalle del ponte di Rialto datato 1568, all’ingresso occidentale della città. Essa si trova inizialmente citata in una imprecisa trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “[…] vicino a Mola, ove si veggono molti vestigi d’antichi hedifici et anche molti marmi spezzati, nelli quali leggonsi molti epitaphi antiqui, delli quali ancun io descrivero, come vidi passando quindi per andare a Napoli. Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio, lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”. Della prima iscrizione Pasquale Mattej a metà Ottocento documenta sotto il ponte due distinti testi parziali, così successivamente integrati da Mommsen (CIL X, 6190): A) “M . VITRVVIVS (…)”, non riportato dall’Alberti, titolo a caratteri “capitali” di età augustea alti cm. 24; B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, quello inizialmente documentato, a lettere più piccole, oggi coperta da un gradone cementizio: il testamento concerne il sepolcro di un Marco Vitruvio eretto da un suo liberto M. Vitruvio Apella e non destinato ad eredi. Grazie alla stessa documentazione di Mattej, presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, ho potuto identificare il sito di provenienza delle epigrafi: in alcuni disegni ritrae un tratto della via Appia prossimo al ponte, dove ai piedi di un casolare cinquecentesco sono i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo in un appunto si specifica l’epigrafe rimossa alla fine del Settecento dal principe di Caposele e collocata nel lapidario all’ingresso della sua villa. Queste indicazioni trovano conferma nel 1997, allorché sul quel tratto dell’Appia (attuale via G. Paone) prossimo alla Fontana Romana e ad un sepolcro a torretta ottagonale, la creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento ha fatto affiorare una struttura funeraria sulla quale è intervenuta la Soprintendenza Archeologica. L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito di blocchi lapidei, recinto sul lato monte con un muro in “opus reticulatum” di prima età augustea, similmente replicato sul lato occidentale per altro ambito funerario. Queste aree hanno restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, affiorarono anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini. I contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a monete, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti conservati ma non esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia. Ciò che resta del monumento sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica mi hanno consentito una ipotesi della sua architettura. Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree è in strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo, poiché all’interno vi si eseguivano i progressivi getti cementizi, coesi tramite lo spargimento di minute scaglie calcaree derivate dalla lavorazione dei blocchi perciò di pari materiale: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte, tra i quali un pezzo di fregio dorico in cui si presenta un fiore con quattro foglie dagli apici ritorti e un tortiglione centrale che richiama il bocciolo di una viola, insieme alle rose fiori specifici del culto funerario. La struttura del sepolcro ha pianta quadrata e dalle impronte lasciate dai blocchi è riferibile al modello dell’altare a fregio dorico introdotto dalla fine del II secolo a.C., contenente una cella di contenute dimensioni. La pianta della struttura, compreso il recinto in “opus reticulatum”, è un quadrato di lato m 5,90 cioè 20 piedi e che sostanzia la proporzione del monumento con lo schema geometrico di Platone del rapporto √2 costituito da quadrati concentrici o in equivalenza alterni a cerchi, come appunto verificato in uno dei “ninfei” in Villa Caposele. In questo schema si ottengono coincidenze con le tracce sulla struttura, fornendo indicazioni anche per le altezze del monumento: il basamento o podio risultava alto di 10 piedi (m 2,97), quella complessiva di 28 piedi cioè m 8,28 di cui l’altare di 18 piedi (m 5,32). Nel modello ricostruttivo trova pure congrua collocazione l’iscrizione del “patronus”, che prima di svincolato valore documentale, ora si identificava con il monumento riaffiorato. In base ai vari esempi, l’epigrafe “capitale” si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata sulla fascia del podio; invece lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini le riconduce entrambi all’altare. Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle informazioni scaturite dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto: così è il sepolcro, volutamente in via di occultamento con vegetazione rampicante in violazione alle norme manutentive del monumento vincolato; nondimeno è il Ponte cinquecentesco con i suoi frammenti epigrafici; quindi il principale corso cittadino intitolato a Vitruvio non reca che generiche targhe. A ciò, altre città tentano in ogni modo di attribuirsi la natalità di Vitruvio e con vane congetture; Formia invece continua ad ignorare i documenti materiali di quello che fu uno dei principali artefici della cultura occidentale.
Bibliografia - NICOLETTA CASSIERI, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, ed. 2002, p.33 segg. - SALVATORE CICCONE, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, ed. 2007, p.47 segg. - AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, ed. 2009.
Immagini: 1 – L’area funeraria di Marco Vitruvio sulla via Appia, come è oggi ricoperta da edera, e come ritratta da Mattej nel 1847 (Bibl. Vallicelliana, Roma). 2 – Blocco epigrafico alla base della spalla del Ponte di Rialto con disegno integrativo del titolo. 3 - Sepolcro di Marco Vitruvio, vista dei resti verso oriente e dalla parte superiore. 4 – Sepolcro di Marco Vitruvio, disegno restitutivo (CICCONE 1999): in basso a destra, proporzione teorica della pianta sullo schema in rapporto √2 a sinistra determinante l’effettiva posizione regolarizzata delle parti; sopra, alzato frontale secondo il criterio modulare; a destra, sezione trasversale con vano della cella e in tratteggio il nucleo esistente.

lunedì 11 dicembre 2023

I COLLAGE SICILIANI DEI COSTUMI DEL REGNO DI NAPOLI
L'arte del collage (unire e assemblare materiali eterogenei per creare opere d'arte), particolarmente popolare nel XX secolo grazie ad artisti come Pablo Picasso e Georges Braque, ha visto il contributo significativo di artisti siciliani tra il XVIII e il XIX secolo. I Collage Siciliani dei Costumi del Regno di Napoli, rappresentano chiaramente esempi precedenti di opere realizzate con la tecnica del collage. La serie "Costumi del Regno di Napoli" è stata creata nel contesto di un progetto ordinato da re Ferdinando IV per documentare gli usi e i costumi delle classi popolari. Gouaches e acquarelli eseguiti da pittori meridionali, come Alessandro D'Anna, hanno dato vita a stampe riprodotte a partire dal 1793 per volere del Re. Queste stampe hanno influenzato la creazione di collages polimaterici, in cui materiali eterogenei come tessuti, metallo e carta vengono combinati per formare opere uniche. Artisti siciliani, tra cui Gaetano Ognibene, hanno giocato un ruolo chiave nella diffusione di questo genere. Questi collages sono caratterizzati dall'uso di colori caldi e materiali diversi, come tessuti, laminette metalliche, fili cartacei, mica e tartaruga. Inoltre, accenni paesaggistici ridotti e la ripetizione di soggetti in varianti minime da parte degli artisti sono evidenti nei collages. Infine, questi lavori non solo documentano i costumi del Regno di Napoli, ma rappresentano vere e proprie opere d'arte autonome, tra le più originali espressioni delle arti decorative siciliane tra XVIII e XIX secolo.
Nelle immagini due collages di costumi tradizionali: uomo e donna di Castellone e donna di Scavoli (Scauri), facenti parte della serie dei Costumi del Regno di Napoli  firmati da Gaetano Ognibene e datati 1800.

martedì 5 dicembre 2023

CICERONE E UN TEMPIO AD APOLLO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Il 7 dicembre ricorre l’uccisione di Cicerone, storicamente avvenuta presso la sua villa di Formia in quel giorno del 43 a.C., proscritto in fuga da Roma e ad opera dei mandatari di Marco Antonio. Il luogo dove sarebbe avvenuto l’episodio, indicato dagli scrittori classici presso “Cajeta”, sarebbe rispondente alla zona tra il lido di Vindicio e la valle di Pontone: qui si situa il grande sepolcro detto prima “Torre” e poi “Tomba di Cicerone”, attribuzione supportata da documenti e dalla tradizione risalenti all’alto Medioevo, quando quell’ambito veniva indicato “vico ciceriniano”, ossia la tenuta di Cicerone. Il sepolcro turriforme alto oltre 20 metri, ridotto alla sua ossatura strutturale, è incluso in una vasta area funeraria quadrangolare recintata di circa 5.000 metri quadrati allineata con il lato più lungo alla via Appia. In prossimità di essa, a nord-est del recinto, si trova sepolto un viottolo largo circa m. 2,20 a lastre calcaree, parte sacrificata di un lungo percorso rettilineo ortogonale al mare rimasto in tracce, certamente di uso privato, che incrociava la via litorale identificata con quella tracciata nel 184 a. C. dal censore Lucio Valerio Flacco: vicino al litorale il viottolo separa i resti di due ville, quella occidentale consistente nell’ampio basamento con fronte a nicchie e ubicata nella stessa fascia di terreno del monumento, verosimilmente parte di un unico podere. Riguardo la localizzazione della villa formiana di Cicerone, tra gli elementi tramandati vi è quello della vicinanza di un tempio ad Apollo “affacciato sul mare” (Plutarco, Vite parallele, Cicerone, II, 47), colpito nell’anno 182 a.C. da un fulmine e collocato nel territorio di Formia presso “Cajeta” (Livio, 10. 4. 1). Secondo il racconto di Plutarco, da quel tempio si levarono dei corvi per posarsi sull’alberatura della nave del fuggitivo Cicerone, mentre costretta dal mare avverso prendeva terra e dove ancora quelli lo seguirono nella sua villa con grande schiamazzo e di funesto presagio. Il toponimo “Vindicio”, che si legge nella forma più antica “vindici”, viene semplicisticamente fatta risalire a vindex (vindicis), il luogo della vendetta di Antonio, oppure ad un possedimento di Caio Giulio Vindice. Invece il termine oltre che “vendicatore” può significare “salvatore” tra i possibili epiteti di Apollo; pertanto vindici (dativo) “al salvatore” con valore locativo o dedicativo in riferimento al tempio, dominante su questo tratto di mare affidato alla protezione del dio. La villa litoranea corrispondente al sepolcro si trova nel tratto iniziale dell’insenatura indicata “portus Caietae”, vantaggioso approdo naturale allora nel municipio di “Formiae”. Nella prossimità orientale della villa, dalla via Vindicio (via Flacca) sporge sul mare una platea compatibile all’ubicazione di un tempio. I resti strutturali, già visibili in passato, sono risaltati in una progressiva azione erosiva del mare che fece affiorare nella parte frontale un’antica scogliera protettiva: tale condizione si manifesta già avuta e fissata negli anni 1920-30 in alcune cartoline. La platea reimpiegata alla fine degli anni 1960 per uso di un adiacente stabilimento balneare è di forma rettangolare di circa m. 11 di lato dalla strada e almeno di m. 25 sul fronte mare, con una altezza intorno ai due metri dal lido. È limitata da tratti di muro in “opus reticulatum” di fine Repubblica o età augustea, su fondazione cementizia che ne testimonia la massima dimensione. Particolare è la soluzione di raccordo con la via antica, certo compresa e non molto discosta dall’attuale, consistente in una deviazione obliqua del muro a 45 gradi in suo favore quale invito all’accesso; non meno importante è sulle pareti reticolate la presenza di un rinfianco di muratura cementizia come rinforzo e virtualmente di ampliamento, forse in relazione ad un evento marino che determinò la posa della scogliera protettiva. La platea si trova centrata rispetto ad una viuzza di antica presenza e che infatti in tracce e in mappe si rileva parallela 100 metri oltre l’altra delle ville e del sepolcro, fino all’Appia. Questa disposizione relazionata alla via pubblica e a questa traversa diretta al centro dello spiazzo è una ulteriore indicazione sulla possibile relazione ad un tempio che idealmente viene spontaneo immaginare di forma circolare. Nel ripascimento della spiaggia, praticamente cancellata dalla poderosa mareggiata del 1987, le strutture sono state insabbiate tanto da scorgersi a malapena le parti in opera reticolata. Con i recenti lavori di ampliamento del lungomare, piuttosto che utilizzare questo storico spiazzo, sebbene implicato a concessioni private, se ne è prodotto un altro immediatamente congiunto sul lato occidentale, celando parte delle antiche testimonianze. Durante gli stessi lavori venne inglobato il muro del lungomare a blocchetti di pietra realizzato dai Borbone intorno il 1850 e demolite le caratteristiche spallette con copertura “a bauletto” di cocciopesto: dietro il muro, nel tratto susseguente alla piattaforma, vennero in luce le strutture sostruttive cementizie della via romana e poi i resti di vasche ornate, in corrispondenza della base di villa con nicchie. Per queste vasche si è escluso che vi passasse una via, deduzione non provata per il ridotto ambito di scavo longitudinale e non trasversale alla strada attuale, oltre che inficiata dalla documentazione e dalla stessa oggettiva situazione; invece si può supporre una intenzionalità di monumentalizzare un tratto della strada connessa al “Formianum”, la villa d Cicerone, come del resto si rileva dagli studi recenti in funzione del recinto del sepolcro, per il quale un tratto di più di 80 metri della via Appia venne posto in piano, intervento non certo eseguibile per scopi privati. Certo è che in questa terra si compì uno degli episodi storici universalmente noti e cruciali della storia di Roma e della cultura occidentale; sarebbe opportuno che le testimonianze di quel periodo nel sito potessero essere parimente riconosciute e valorizzate. Una più estesa e documentata trattazione dell’argomento in S. Ciccone, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, “Formianum” Atti del Convegno IX-2001, Caramanica Editore 2021 (ISBN 978-88-7425-326-5), pp. 11-38.
Didascalie delle immagini 1-3) Viste della platea (Fototeca Ciccone): con la scogliera riaffiorata sullo scorcio degli anni 1970; nel lato occidentale con l’antico raccordo alla via; in asse alla via antica a monte, con fronte in opera reticolata e parziale rinfianco. 4) Pianta sommaria della platea romana (Ciccone 1979). 5) I ruderi della platea a sinistra e la scogliera in una cartolina anni 1920-30

giovedì 23 novembre 2023

LA RECUPERATA “COLONNA DELLA LIBERTÀ” A FORMIA di Salvatore Ciccone
La “Colonna della Libertà” è un monumento formiano rimasto celato per oltre cento anni e che di recente è tornato al suo posto, in adiacenza al largo Domenico Paone, nella piazza Tommaso Testa. Secondo la tradizione essa ricordava il passaggio delle truppe napoleoniche del 1799 e la costituzione della “Comune di Formia – Mola e Castellone”, nel territorio affrancato da un millennio di subordinazione a Gaeta. Prima del ripristino, il monumento compariva in alcune raffigurazioni e dettagliatamente in una foto del 1900 (fig. 1), costituito da una snella colonna liscia con capitello dorico, innalzata su un piedistallo prima ancora protetto da quattro cippi paracarro; esso rovinò, pare, durante un fortunale nel 1914 e i pezzi rimasti a terra, anche dopo l’esecuzione del nuovo lungomare avutosi nel 1928 per munificenza di Domenico Paone. La piazza già “della Darsena” quando era sul limite della “Spiaggia di Mola”, tangente il tratto sostitutivo della via Appia (la via romana percorreva infatti parte della retrostante via della Conca), era delimitata ad oriente dal palazzo Mattej: da esso la Colonna si trovava a filo della facciata principale a circa a m. 12 dal cantone. Davanti al palazzo era una rotonda sporgente sulla spiaggia contestuale ad una fontana a parete di metà Settecento. Nel primo ampliamento del lungomare degli anni 1850, tolta la rotonda, la fontana venne trasferita sul fondo cieco della piazza e modificata allungando la vasca di abbeveraggio sormontata da cinque botticelle su onde, detta “Fontana delle Cinque Cannelle”: rispetto a questa la Colonna si venne a trovare centrata a poco più di 7 metri. L’origine del monumento nota nella tradizione, si riscontra nello stile architettonico e in un documento della “Comune” che ne affidava l’opera allo scalpellino Giuseppe D’Auria. Con la venuta dei napoleonici, nelle piazze più frequentate e scelte come luoghi di adunanza, si innalzava un “Albero della Libertà”, simbolo popolare della Rivoluzione Francese che in varie illustrazioni d’epoca è un albero oppure un palo eretto, ornato con emblemi del movimento quali il berretto frigio, coccarde tricolore e cartigli con i motti innovatori. Nella piazza della Darsena, sul passaggio obbligato, c’era maggior spazio per un raduno, inoltre si può immaginare come fosse facile reperire un palo tra gli armamenti dei navigli periodicamente tirati in secco. L’innalzamento della Colonna celebrativa quindi deve essere avvenuta nel luogo e in sostituzione dell’effimero “albero”. In effetti nei progetti per l’area del palazzo reale di Napoli, istruiti dal reggente Gioacchino Murat, si scorge una colonna sormontata da statua. È verosimile che anche la Colonna di Formia fosse finalizzata ad una statua, verosimilmente ispirata a quelle dell’epoca della Libertà, tale rendere compiuto il significato e designare il monumento. Questa ipotesi pare avvalorata nella prima raffigurazione conosciuta della Colonna risalente al 1816-1817 e realizzata dall’architetto inglese James Hakewill (fig. 2), dove sul capitello si percepisce una base quadrangolare, impossibile invenzione dell’artista, ma in effetti necessaria a rialzare una statua per la sua completa visione. Dopo il ritorno del monarca spodestato Ferdinando IV di Borbone rinominatosi Ferdinando I, il quale ratificò il Comune il 25 gennaio 1820 con il nome di “Castellone e Mola di Gaeta” in alcune illustrazioni del Mattej il monumento è culminato da una croce sul Calvario (fig. 3). Nel 2011, in occasione del cinquantenario del Lions Club Formia, che fin dalla sua costituzione nel 1961 si era proposto il ripristino del monumento, si riuscì a concretizzare il progetto, catalizzato dal 150° anniversario della ripresa dell’antico nome di Formia (1862-2012) e dal concomitante rifacimento del sito: chi scrive, architetto, venne incaricato del progetto, attendendo alla fase di indagine storica e stilistica e agli elaborati restituivi, insieme ai rapporti con gli uffici di competenza e gli operatori tecnici. Si partiva dagli elementi residuali del monumento, consistenti nel fusto della colonna, di granito grigio, nonché della cimasa di marmo bianco del piedistallo: tutto il resto era perduto. I pezzi risultavano appartenuti a costruzioni di epoca romana: la colonna, con il diametro di base di m. 0,44 equivaleva a 1,5 piedi romani (1 piede = m. 0,2957) ossia un cubito, ma in rapporto a quello l’altezza di circa m.3,50 era in difetto, fatto comprovato dall’assenza delle modanature ai due estremi; la cimasa, alta m. 0,15 e larga agli estremi m. 0,86 corrispondeva rispettivamente a 0,5 e a 3 piedi (m. 0,89), quest’ultima pure in difetto perché riscolpita superiormente con modanatura a “toro”. con l’elemento di misura prevalente della colonna si è potuto risalire al disegno in proporzione dell’intera composizione (fig. 4). L’altezza totale risultava di circa metri 5,30 che si poteva tradurre in 20 palmi napoletani, ciascuno pari a m. 0,265. Il riscontro all’impiego di questa misura si aveva nella cimasa, che nel piano inferiore di appoggio presentava sul perimetro la grossolana e più recente scanalatura ampia circa cm. 5 e necessaria per alloggiare le lastre di rivestimento del piedistallo: questo perciò risultava largo m. 0,66 esattamente 2,5 palmi e, compreso il gradino di base, ammontare in altezza a 5 palmi, quindi con la larghezza in rapporto 1:2; la colonna risultava di 15 palmi compresa la base di 1 palmo e il capitello di 0,75 palmi (m. 0,20); essa risultava essere stata solamente poggiata sulla cimasa e assicurata con l’ausilio di un collante, che degradando causò il crollo. il fusto della colonna era stato abilmente reintegrato nella parte alta con una stuccatura, laddove tuttora si presenta consunto da antica erosione: è quindi probabile che sia stata recuperata sulla spiaggia antistante a occidente dove vi erano i resti di una villa romana con vasta peschiera. Il monumento benché di ridotta entità e semplice composizione, si riscontra ben studiato nelle proporzioni in rapporto alle visuali e dell’effetto riduttivo della colonna isolata nello spazio circostante. Se poi si considera la presenza di una statua di culmine, si può ipotizzarla alta cinque piedi e quindi il tutto di 25 piedi (m. 6,63), in proporzione di 10 volte la larghezza della base. I lavori eseguiti nel 2011 hanno prodotto una piazza sulla preesistente sede viaria, questa avanzata con pari curvatura, dove la Colonna sarebbe potuta divenire l’elemento di convergenza delle visuali di percorrenza del nuovo spazio pedonale. La ricostruzione del monumento si è avvalso della riproduzione robotizzata degli elementi mancanti con pietra levigata della zona, con il profilo delle modanature rimasto sintetico perché non sufficientemente documentabile; inoltre tra i nuovi elementi della base si è anche prodotto un solco di distacco per sottolinearne la ricostruzione. Nella colonna furono consolidate le microscopiche lesioni che si sarebbero tradotte in futuri sfaldamenti, lasciando però a vista le scagliature prodotte nell’ultimo conflitto, come pure le parti consunte in origine stuccate Il posizionamento della colonna fu pertanto stabilito nell’ambito della piazza, facendola rimanere in asse con il centro della fontana, ma avanzadola verso mare di circa 7 metri in favore delle nuove visuali. Affinché si potesse apprezzare il più completo e profondo significato del monumento e del suo recupero, sul piedistallo della colonna due iscrizioni di seguito riportate recano in sintesi la storia, una del monumento e l’altra di Formia. Sul lato Roma: NEL 1799/SI COSTITUIVA / «LA COMUNE DI FORMIA - MOLA E CASTELLONE» / CHE PER L’AUTONOMIA CONQUISTATA ERESSE QUESTA / «COLONNA DELLA LIBERTÀ» / ROVINÒ NEL 1914 E DIMENTICATA / LE FURONO INFERTE LE FERITE / DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / L’AMMINISTRAZIONE MUNICIPALE / CON IL RESTAURO CURATO E SOVVENZIONATO DAL / LIONS CLUB DI FORMIA / CELEBRANDO L’UNITÀ NAZIONALE / CONCRETIZZATA IN QUESTA TERRA NEL 1861 / NEL LUOGO ORIGINARIO / LUNGO LA VIA CHE COSTEGGIAVA LA / SPIAGGIA DI MOLA / AL CUI LATO ERA IL PALAZZO DI / PASQUALE MATTEJ / (1813-1879) / DEVOTO ALL’ARTE E ALLA STORIA / ARTEFICE DELLO STEMMA CITTADINO / IN OCCASIONE / DEL 150° ANNIVERSARIO DELLA / RIPRESA DEL NOME DELLA CITTÀ ANTICA / A FUTURA MEMORIA DEL CAMMINO CIVILE / RISTABILIRONO NELL’ANNO / 2012 Sul lato Napoli: FORMIA / DAL GRECO HORMIAI AD INDICARE I BUONI APPRODI / POPOLATA DAGLI AURUNCI / CREDUTA L’OMERICA LESTRIGONIA / ANTICO MUNICIPIO ROMANO SPONDA AMBITA DELL’URBE / DA CICERONE AMATA FIN ALL’ESTREMO RESPIRO / DI VITRUVIO PATRIA RICONOSCIUTA / SEDE EPISCOPALE / SEPOLTURA DI SANT’ERASMO / AVVICENDATA DA CAJETA SUO PORTO NATURALE / SOPRAVVISSUTA IN DUE SOBBORGHI / MOLA E CASTELLONE / NEL 1799 / RIUNITA NELL’AUTONOMIA COMUNALE / RATIFICATA NEL 1820 / NEL 1861 CAPOSALDO / DEL NASCENTE STATO ITALIANO / NEL 1862 RISCATTATA DELL’ANTICO NOME DI FORMIA / NEL 1865 INSIGNITA DEL TITOLO DI CITTA’ / CON EMBLEMA DELLA MITICA FENICE / DISTRUTTA NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / MEDAGLIA D’ARGENTO / RICOSTRUITA PER TENACE VOLONTA’ DEI SUOI CITTADINI / VOLGE LO SGUARDO AL FUTURO DI PACE E FLORIDEZZA / NELLO SPIRITO DI LIBERTA’ La “Colonna della Libertà” venne inaugurata insieme alla piazza 16 giugno 2012 come ritrovata memoria della rinata Formia di allora, di nuovo presente come punto di riferimento della città attuale.
Didascalie delle immagini 1 – La Colonna della Libertà e il susseguente palazzo Mattej in piazza Darsena, in una fotografia di primo ‘900. 2 – La Spiaggia di Mola nell’illustrazione di James Hakewill del 1816-17 con a destra la Colonna della Libertà: nel dettaglio è evidente sul capitello la base per una statua. 3 - La piazza della Darsena campeggiata dalla Colonna della Libertà sormontata da una croce in un disegno di Pasquale del 1846-47. 4 - Disegno restituivo di progetto della Colonna della Libertà (Studio Arch. S. Ciccone, 2011), confrontato con l’opera di ripristino compiuta nella nuova piazza.